Egli (Elia) la chiamò e le disse: “Prendimi un po’ d’acqua in un recipiente, perché io possa bere”. Mentre andava a prenderla, le gridò: “Portami anche un pezzo di pane”. Quella rispose: “Come è vero che vive il Signore, tuo Dio, non ho del pane cotto, ma solo una manciata di farina in una giara e un po’ d’olio in una brocca; ecco, sto raccogliendo due pezzi di legna, poi andrò a prepararla per me e mio figlio, la mangeremo e poi moriremo”.
Commenta Bruna Costacurta: “E’ la gestualità quotidiana che continua anche davanti alla morte, quel rispetto e quell’obbedienza alla vita di cui si nutrono i piccoli e i poveri. Per due volte nel testo è ripetuto che la donna stava raccogliendo la legna (vv. 10. 12), ed è una ripetizione significativa. Perché nella disperazione, quando tutto sembra finito, la tentazione sarebbe di buttare anche quel poco che resta, e così morire subito; a che serve fare la fatica di raccogliere la legna se dopo quella focaccia non c’è altro e si deve comunque morire? Tanto vale aspettare la morte e basta. Ma i poveri conoscono il valore della vita e le obbediscono fino alla fine. E’ la vita che continua nel poco e nella mitezza. Anche se poi è per morire.
E nelle parole della vedova e nella sua decisione tenace di andare avanti c’è anche tutto l’amore di una madre, che dà vita fino all’ultimo, che non si rassegna mai, che nutre la vita del figlio fino all’ultimo respiro. E’ l’amore che non può accettare la morte e difende la vita e la sua dignità, anche quando sembra che ormai sia tutto perduto”.
L’incipit di “Se questo è un uomo” di Primo Levi:
“E venne la notte, e fu una notte tale, che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere. Tutti sentirono questo: nessuno dei guardiani, né italiani né tedeschi, ebbero animo di venire a vedere che cosa fanno gli uomini quando sanno di dover morire. Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione.
Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, ed all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino, voi non gli dareste oggi da mangiare?”.
In questa lettura sinottica dei due racconti ci pare di sentire il brivido, la vertigine che salgono dai millenni della memoria ebraica di cui l’ebreo Primo Levi è portatore: l’amore per la vita, la cura della vita che non può essere sospesa neppure in limine mortis. I maestri usano l’espressione Tza’ar ba’alè chayim, cura per i viventi.
Questa sottolineatura non mi pare casuale: nella memoria millenaria dell’ebreo Primo Levi, mi pare che rivivano le mille madri ebree, le mille Sara, le mille Rebecca, le mille Lia, le mille Rachele, che alla vigilia di ogni pogrom, di ogni annuncio di morte si sono piegate verso i loro figli per nutrirli, per accarezzarli, per dar loro l’ultimo bacio come viatico verso la strada della morte, verso quello che i maestri chiamano il Qiddush ha-schem, ovvero la santificazione del Nome, espressione per dire il martirio ebraico.
L’immagine che ci offre il pittore David Olère, sopravvissuto ad Auschwitz, mi sembra assai eloquente nella sua drammaticità e allo stesso tempo nella sua tenerezza. Una madre ebrea, che viene brutalmente condotta alla camera a gas da un aguzzino, non rinuncia a offrire l’ultima poppata al bambino mentre la figlia più grandicella guarda esterrefatta quasi a proteggere la mamma col piccolo poppante. La debolezza che proclama la vita di fronte alla violenza della morte.
Primo Levi scrive queste parole quando è più che un ragazzo, (ma un ragazzo carico di cento anni, lo si diceva anche di Abramo: puer centum annorum), non è uno studioso della Bibbia, non ha alle spalle studi talmudici e rabbinici, è un giovane ebreo laico, eppure egli coglie il frutto di un seme che germina dalla memoria ebraica.
In quelle mamme del campo di Fossoli, alla vigilia della partenza verso Auschwitz in un treno piombato, Primo Levi non coglie il grido disperato di Rachele (Ger 31, 15).
Egli coglie semmai tutta la trepidazione, la tenerezza e l’attenzione di Sara, quando di buon mattino preparò la colazione per suo figlio Isacco, lo vestì, lo pettinò e lo baciò prima di consegnargli il pane e l’acqua per il lungo viaggio che avrebbe avuto come meta il monte Moria, il monte del sacrificio, monte che Abramo poi avrebbe chiamato: “Il Signore provvede” (Gen 22, 14).
E’ vero che nel capitolo 22 del libro della Genesi la figura di Sara è assente, ma come non vederla sul limitare della tenda, come non percepirne tutta la tensione per l’unico figlio che parte verso una meta ignota. La madre Sara non ha intuito proprio nulla di quanto stava per accadere? Lei che aveva origliato dalla tenda le parole della promessa dei messaggeri di Dio (Gen 18, 10), possibile che ora sia all’oscuro di quello che sta per accadere al suo unico figlio? Cosa fa una madre anche in quell’ora oscura? Fa esattamente come la vedova di Sarepta, la donna straniera che, attraverso l’incontro con il profeta Elia, entra a far parte del mistero d’Israele. Nel mistero della vita!
Nazareno Pandozi