Quest’anno la serata dedicata alla lectura Dantis (il 24 agosto) non risuonerà sotto le volte del nostro Santuario, il luogo di nascita e culla di questa esperienza, che è giunta ormai alla sua tredicesima edizione, ma ci vedrà raccolti nel Teatro comunale uno splendido angolo del Colle, sotto lo sguardo ammiccante delle stelle. Con la parola stelle, quasi occhi di Dio e segno della realtà divina, così care a Dante, si chiudono le tre cantiche del divino poema.
Per questa tredicesima serata dantesca abbiamo scelto il canto XIII dell’Inferno, canto mirabile, centocinquantuno versi che andrebbero mandati a memoria, per quanto sono profondi e struggenti. E pure il poeta non li ritiene sufficienti abbastanza per rivelare il mistero in cui si immerge, ed è obbligato a concludere con i primi versi del canto seguente. Caso raro nel poema!
Canto da brivido e da vertigine, quasi un unicum nella Divina Commedia:per il clima di forte attesa, carico di magia e di sortilegio, per la perfezione stilistica, l’impegno retorico, la profonda partecipazione del poeta al dramma del suicida Pier Delle Vigne condannato alla pena più crudele e più orrida, trasformato in una pianta selvatica, rinsecchita e contorta.
In questo regno dell’umana degradazione, dell’orrore, del rovesciamento dell’ordine morale e dell’ordine naturale, il poeta tace,la sua lingua sembra annodata, la parola è raggelata: è Virgilio, infatti, l’interprete dei sentimenti di Dante, tanta è la pietà: “tanta pietà m’accora”, l’unica realtà umana capace di stabilire un rapporto fra il salvato e il dannato, capace di esprimere il più alto sentire dell’animo umano.
In questo regno senza speranza, lungo i sentieri di questa selva dell’abbrutimento, dal silenzio della parola nascono gesti di amore, gesti dettati dalla carità. Da un arbusto dove è incarcerata l’anima di un suicida fiorentino senza volto e senza nome si alza un grido di dolore.
In questo girone infernale sono condannate anche le anime degli scialacquatori eternamente inseguite da cagne fameliche e feroci che ne straziano le carni. In questa caccia infernale, una di queste anime ha fatto scempio dell’arbusto che incatena il suicida fiorentino, un supplemento di pena, che chiede ai due poeti di ricomporre le fronde lacerate ai piedi del misero cespuglio.
E il poeta si china a terra in un gesto di tenera carità. E’ il gesto dell’evangelico Samaritano. “Poi che la carità del natio loco/mi strinse, raunai le fronde sparte/e rende’le a colui che era già fioco”.
Anche lungo i sentieri di questo deserto senza vita, la poesia fa germogliare il fiore profumato della carità a consolare queste anime afflitte e senza speranza.
E’ l’unica volta che la parola carità compare nell’Inferno. Un apax.
Prof. Nazareno Pandozi