Correva l’anno del Signore 2013, foriero e gravido di eventi carichi di inquietudini, di attese, di profezia, destinati a segnare uno spartiacque nella storia millenaria della Chiesa: papa Benedetto XVI rinunciava al gran manto pontificale e l’elezione di papa Francesco, l’umile pellegrino, che veniva dalla fine del mondo, come lui stesso volle presentarsi per la prima benedizione alla Chiesa di Roma e al mondo. L’uno che sceglieva il silenzio austero e la preghiera, l’altro che annunciava il Vangelo delle Beatitudini, della misericordia, della tenerezza e del perdono.
Per la lectura Dantis, appuntamento tradizionale agostano nel nostro Santuario della Madonna del Colle di Lenola, scegliemmo di proporre al nostro pubblico il canto XIX del Purgatorio, perché ha come protagonista un papa, Adriano V, un papa penitente che, prostrato bocconi nella polvere, in un clima di accorata preghiera, accompagnata dalla compunzione del cuore e dalle lacrime, si purifica dalle scorie dell’umana fragilità.
Leggendo e meditando questo canto, il lettore è come immerso in un clima di dolente elegia, di partecipazione commossa, di coralità carica di sacralità liturgica, di profonda comunione fraterna. Nessun segno esteriore distingue l’anima di papa Adriano, egli, come tutte le anime, si presenta nella sua nudità di penitente e di espiante, un uomo che prega, medita e piange; il suo salmodiare è semplicemente l’eco di una profonda meditazione sulla vanità delle cose della terra, che sente ormai lontane.
Nella quinta cornice della Chiesa purgatoriale, una voce angelica soave e benigna annunzia la beatitudine evangelica: Beati qui lugent, quoniam ipsi consolabuntur, beati coloro che piangono, perché saranno consolati, a cui fa eco la voce corale delle anime, quasi sospirando, il versetto del Salmo: Adhaesit pavimento anima mea, l’anima mia è prostrata nella polvere.
Un’anima ha attirato l’attenzione di Dante, che chiede alla sua guida se può rivolgerle la parola, siamo nel cuore del canto. Già le prime parole con le quali il poeta si rivolge a questa anima, ancora senza volto e senza nome, sono la spia di un clima di estrema fraternità, di comunione e di profonda partecipazione umana, religiosa e spirituale.
“O spirito che attraverso la preghiera accompagnata dalle lacrime e dai sospiri, ti predisponi a ricongiungerti con Dio, abbi la bontà di sostare un poco con me”. Dante pone a quest’anima tre domande: chi fosti sulla terra, perché le anime di questa cornice giacciono bocconi a terra e, infine, se desidera essere ricordato presso qualche caro ancora in vita, perché possa pregare e intercedere per lui, Dante gli rivela che è un vivo.
“Scias quod ego fui successor Petri”. Parole cariche di maestà e dignità. E’ la prima e più importante notizia che quest’anima ha il dovere e il diritto di dare di sé; e ciò egli fa con una solennità e, con una unzione rituale e liturgica, non è una semplice presentazione, risuona come una formula sacra , e non è casuale che sia proclamata nella solenne lingua latina, la lingua della liturgia, che ingenera rispetto e riverenza. Nessun rimpianto per quel gran manto pontificale che ricoprì le sue spalle per il suo brevissimo pontificato durato lo spazio di un mattino, solo trentotto giorni.
Del suo passato questo papa ricorda con profonda nostalgia e nobile malinconia la sua terra natale che si trova tra Sestri e Chiavari, attraversata dal torrente Lavagna, che egli rievoca con commozione lirica, chiamando quel modesto corso d’acqua una fiumana bella, i riflessi della cui bellezza sembrano illuminare e addolcire per un istante la sua pena.
Nelle anime del purgatorio dantesco si respira ancora il profumo della terra e si percepisce l’anelito e il desiderio struggente del cielo. Mistero mirabile che solo la grande poesia riesce a cogliere e sa disvelare.
Ma l’eco di quella bellezza e il profumo di quella terra natale, la fiumana bella, durano lo spazio di un sospiro.
Scias quod ego fui successor Petri, parole che escono dalla bocca di questa anima come una lenta e una austera meditazione, toccano profondamente il cuore di Dante, che si inginocchia in atto di deferente e devota riverenza di fronte alla maestà pontificale e, quasi compunto, gli si rivolge non più col familiare tu con il quale aveva iniziato il colloquio, ma passa al riverenziale e filiale voi.
Quando papa Adriano, che è prostrato bocconi a terra, si accorge che il suo interlocutore si è inginocchiato dinanzi a lui, gli chiede la ragione di questo atto con toni rapidi e imperativi, e la sua meditazione pietosa sembra tramutarsi in esortazione e in comando:
“Qual cagion”, disse, “in giù così ti torse?”.
E io a lui: “Per vostra dignitate
mia coscienza dritto mi rimorse”.
“Drizza le gambe, levati sù, frate!”,
rispose: “non errar: conservo sono
teco e con li altri ad una podestate.
Se mai quel santo evangelico suono
che dice “Neque nubent” intendesti,
ben puoi veder perch’io così ragiono.
Vattene omai: no vo’ che più t’arresti;
ché la tua stanza mio pianger disagia,
col qual maturo ciò che tu dicesti.
Anche la dignità del gran manto, ora è semplicemente cenere e polvere, quest’anima si rivolge a Dante chiamandolo fratello, e parla di se stesso come di conservo, evocando l’Apocalisse. Qui siamo tutti servi di Dio, sottomessi all’unica potestà, anch’io che rivestii il gran manto pontificale: Scias quod ego fui successor Petri, dove quel passato remoto dà i brividi, seguito da quel versetto del Salmo; Adhaesit pavimento anima mea. Non hai letto nel santo Evangelo quel detto di Gesù: Neque nubent?
Ora puoi andare, lasciami piangere, perché solo le lacrime che accompagnano la mia preghiera hanno senso qui, e con queste mi avvicino a Dio. Struggente il congedo di questa anima, che ha compreso il senso profondo delle lacrime, che i santi Padri chiamavano secondo Battesimo, perché le parole si son fatte logore come la carica che egli ha ricoperto nella vita terrena, ora è semplicemente un’anima che piange. Beati qui lugent, quoniam ipsi consolabuntur.
Con la stessa commozione e con lo stesso cuore di quella lontana lectura Dantis, con la quale accompagnavamo papa Benedetto, che entrava nel ministero del silenzio e della preghiera nel monastero Mater Ecclesiae, così allo stesso modo, questi frammenti di quella serata vogliono essere il nostro congedo da papa Benedetto con le parole di Dante, perché ci rivelano la profonda coscienza che il cristiano poeta fiorentino aveva del pontificato romano.
E questo canto purgatoriale è una delle pagine più luminose sul pontificato romano uscite dalla penna, dal cuore e dalla fede di Dante.
Papa Benedetto e la Divina Commedia
Le tante citazioni di Dante negli scritti di papa Benedetto non sono orpelli retorici, egli è un finissimo esegeta della Divina Commedia, che leggeva con stupore e commozione. Ne diamo un brevissimo, ma folgorante frammento tratto dal messaggio al Pontificio Consiglio Cor Unum, 23 gennaio 2006: “L’escursione cosmica, in cui Dante nella Divina Commedia vuole coinvolgere il lettore, finisce davanti alla Luce perenne che è Dio stesso, davanti a quella Luce che al contempo è ‘l’Amore che move il sole e l’altre stelle’. […] E’ stata questa consapevolezza che mi ha indotto a scegliere l’amore come tema della mia prima Enciclica. Volevo tentare di esprimere per il nostro tempo e per la nostra esistenza qualcosa di quello che Dante nella sua visione ha ricapitolato in modo audace. Egli narra di una ‘vista’ che ‘s’avvalorava’ mentre egli guardava e lo mutava interiormente (cfr. Pd XXXIII 112-114). Si tratta proprio di questo: che la fede diventi una visione-comprensione che ci trasforma. Era mio desiderio di dare risalto alla centralità della fede in Dio – in quel Dio che ha assunto un volto umano e un cuore umano – […] il volto di Gesù Cristo, che a Dante appare nel cerchio centrale della Luce”.
Vogliamo accompagnare papa Benedetto verso la meta suprema del suo pellegrinaggio, nelle dimore eterne, come ha scritto nel suo testamento spirituale, nel bel giardino /che sotto i raggi di Cristo s’infiora (Pd XXIII 71-72).
Il ricordo del Giusto sia in benedizione!
NAZARENO PANDOZI