Zakhor! Ricorda! E’ l’imperativo divino che attraversa tutta la Bibbia, accompagnato dall’altro imperativo divino: Shemà! Ascolta! Primo Levi, ispirandosi a questi due precetti, così si rivolge a tutti noi, che ci prepariamo a celebrare la memoria dell’immane tragedia della Shoah: “Meditate che questo è stato: /Vi comando queste parole. /Scolpitele nel vostro cuore /Stando in casa andando per via, / Coricandovi e alzandovi; Ripetetele ai vostri figli”.
Dunque, ascoltare e ricordare (far memoria) sono i due grandi precetti che il Signore dà ad Israele. Nelle logica della sacra Scrittura far memoria è nell’ordine della sacramentalità.
Il giorno della memoria perché non diventi un rito che si ripete di anno in anno, dovrebbe entrare nel calendario dell’umanità , dovrebbe diventare un codice etico scolpito nel cuore dell’umanità stessa , come ci ha ammonito la parola di Primo Levi, il testimone oracolare del martirio ebraico.
Il dramma della shoah non è accaduto lontano da noi, nelle periferie del pianeta. Il dramma della shoah, il male assoluto, il buco nero nella storia dell’umanità, è avvenuto nel cuore della civiltà europea nutrita di cristianesimo.
E’ questo il vero dramma sul quale noi cristiani siamo chiamati a far memoria, a meditare seriamente davanti a Dio, davanti a Israele e davanti all’umanità offesa.
Noi cristiani facciamo memoria della shoah con un supplemento di anima, con la coscienza di essere ospiti nella casa d’Israele, come dice Karl Barth, ospiti nella tenda di Abramo. Non possiamo entrare in questo tempio di lacrime, come Giuseppe Dossetti ha definito la Shoah senza rinnovare il nostro Battesimo con il lavacro delle lacrime di compunzione, col cuore trafitto.
Auschwitz può dirsi “il Golgota dell’umanità moderna” dove le camere a gas sostituirono la croce, come scrive il rabbi Maybaum, un Golgota pagano, il Golgota del XX secolo, come dirà Giovanni Paolo II nel suo pellegrinaggio ad Auschwitz nel 1979. Il Golgota “della crocifissione di milioni di fratelli del Signore, di Gesù della stirpe di Israele”, così si esprimeva Francois Mauriac, esponente del cattolicesimo francese e premio Nobel per la letteratura nel 1952.
Nell’ebreo che veniva umiliato, offeso nella sua dignità, disumanizzato e sterminato ad Auschwitz, era lo stesso Gesù che veniva offeso e di nuovo crocifisso, direbbe il nostro Dante: “Veggiolo un’altra volta esser deriso; /veggio rinovellar l’aceto e ‘l fiele, / e tra vivi ladroni essere anciso”. (Pg XX, 88-90).
Marc Chagall, il massimo pittore ebreo contemporaneo, ha rappresentato la tragedia vissuta dagli ebrei nel Novecento, e culminata nello sterminio di Auschwitz, attraverso l’icona di Gesù crocifisso, la cifra per eccellenza del cristianesimo. Penso in particolare al dipinto più famoso, che va sotto il titolo di Crocifissione bianca del 1938.
Hanna Krall, una scrittrice polacca, nel libro “La festa non è la vostra”, dove rievoca un orrendo eccidio di ebrei che si erano rifiutati di calpestare i rotoli della Torà, narra un fatto che non può non inquietarci e porci qualche interrogativo.
“Kurt Engels, comandante della Gestapo, gli pose personalmente (all’ebreo Leon Blatt) in capo una corona di filo spinato e gli appese al collo un cartello, su cui era scritto: “Sono Cristo. Izbica è la nuova capitale degli ebrei”. “Rideva a crepapelle, mentre Leon Blatt camminava con la sua corona per le vie di Izbica”.
In quel povero ebreo si rinnovava la passione di Cristo, anzi agli occhi del carnefice era Cristo: “Sono Cristo”, era scritto a caratteri cubitali sul cartello che il carnefice nazista gli aveva incollato sul petto. Non ci richiama forse il cartiglio che Pilato in maniera beffarda aveva fatto apporre sulla croce di Gesù?
Leon Bloy scriveva già nei primi anni del Novecento: “L’antisemitismo, cosa del tutto moderna è lo schiaffo più orribile che nostro Signore abbia ricevuto nella sua Passione sempre in atto, è il più sanguinoso e il più imperdonabile, perché lo riceve sul volto di sua madre”.
David Flusser, noto studioso ebreo del Nuovo Testamento all’università ebraica di Gerusalemme, ha raccolto questa testimonianza straordinaria:“Si racconta che papa Giovanni XXIII, vedendo un film su Auschwitz, allo spettacolo degli ebrei uccisi abbia esclamato: “Hoc est corpus Christi”, questo è il corpo di Cristo. Credo che si tratti di un evento storico. Perché sono parole pronunciate d’istinto. Esprimono una cristologia valida e molto profonda, direi eccezionalmente profonda. Ogni martirio, anche il recente, indicibile, tremendo martirio ebraico, è parte della morte in croce di Cristo. Questo aspetto del corpus mysticum di Cristo, non andrebbe dimenticato, costringe noi tutti, cristiani e non cristiani, a una feconda riflessione”.
Allora il discorso si fa drammaticamente serio: negare la Shoah per un cristiano non è solo un’aberrazione storica e brutale antisemitismo, ma è soprattutto negare la Croce di Cristo, è negare il Corpo di Cristo, è negare il mistero d’Israele che è profezia del mistero di Cristo. Mi sembra molto opportuna la riflessione di Julien Green sulla Shoah e sulla responsabilità storica, sulla scorta di Jules Isaac sul secolare “insegnamento del disprezzo” di matrice cristiana: “E’ inutile cercare di sottrarci: noi cristiani, siamo quasi tutti responsabili (secondo gradi che misteriosamente variano da un’anima all’altra e secondo il grado di luce): intanto il supplizio di Gesù continua giorno e notte nel mondo. Dopo esser stato inchiodato sulla croce romana, è perseguitato nella sua razza con una crudeltà inesorabile. Non è possibile colpire un Ebreo senza colpire Colui che è l’uomo per eccellenza e, nello stesso tempo, il fiore d’Israele; era Gesù che si colpiva nei campi di concentramento, era sempre Lui, e non ha finito ancora di soffrire. Bisogna porre fine a tutto questo e ricominciare daccapo! E ritrovarci tutti il mattino della Risurrezione a abbracciare Israele, senza parlare, piangendo. Soltanto le lacrime possono avere un senso dopo Auschwitz. Cristiano, asciuga le lacrime e il sangue sul viso di tuo fratello ebreo, il volto di Cristo, del vostro Cristo, risplenderà”.