DON LORENZO MILANI (1923-1967) NEL CENTENARIO DELLA NASCITA di Nazareno Pandozi

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In principio: la Bohème. Lorenzo Milani, una vita da signorino. Un mondo di splendente ricchezza e cultura
con scambi e frequentazioni importanti, generazioni di laureati e intellettuali abituati agli agi e ai privilegi,
basti pensare che, quando a Firenze negli anni venti e trenta, circolavano sì e no quindici automobili, la
famiglia Milani ne possedeva due. Splendente ricchezza da cui Lorenzo come Francesco d’Assisi prenderà le
distanze in maniera radicale, ad eccezione di quella libertà di pensiero che da sempre aveva caratterizzato
la sua famiglia.


Una domanda sorge spontanea: qual è il momento genesiaco di Lorenzo? Quale il Kairòs aurorale? Quale il
suo fonte battesimale da cui riemerge l’uomo rinnovato? Un cammino esodico quello del giovane Lorenzo.
Terminato il liceo classico al Berchet di Milano, Lorenzo fu irremovibile: “All’università non ci vado”. Ai
genitori delusi, disse che voleva fare il pittore. Vita da Bohèm. Affascinato dalla bellezza, convinto che l’arte
gli avrebbe rivelato il mistero dell’esistenza, quasi un tesoro nascosto che dà un senso a tutto il resto, iniziò
a frequentare l’Accademia di Brera. Lorenzo, coi pennelli fra le dita, avanza cieco nel labirinto e non trova
l’uscita. Cincischia come se gli mancasse qualcosa. Sì, forse ha ben intuito Staude, il suo maestro fiorentino:
Lorenzo non aveva la stoffa del pittore, ma la pittura certamente fu un veicolo di senso, la ricerca di
un’esistenza altra.


Nella sua inquieta ricerca di senso negli anni giovanili non vediamo nessuna terra sacra, su cui camminare a
piedi nudi, nessun Roveto ardente, nessuna Voce tonante, nessun mormorio di vento leggero, nessun
evento teofanico.


Ma qualcuno attende Lorenzo, il giovane viator lungo le strade della quotidianità, lungo una terra profana:
la voce di una popolana. Il giovane aspirante pittore si era recato in un vicolo vicino a Palazzo Pitti, per
dipingere all’aperto. In un momento di sosta si mise ad addentare un panino ben imbottito. Quella
pagnotta di pane bianco però non era sfuggita a una popolana senza peli sulla lingua: erano gli anni della
guerra, e anche il pane nero veniva comperato dalla gente con i bollini della tessera. “Non si viene a
mangiare pane bianco, il pane dei ricchi, nelle strade dei poveri!”, gli gridò piena di rancore e di rimprovero.
Tutto ebbe inizio lì. Lorenzo ricorderà sempre la vergogna e l’inquietudine di quel momento, le parole di
quella popolana rimasero impresse nella sua vita come un memoriale, come stimmate impresse nella sua
carne, come sigillo sacramentale di un battesimo ricevuto che lo avrebbe fatto rinascere a una vita nuova.
Iniziava il suo Esodo.


Ma non c’è Esodo senza un Mosè che indichi la pista nelle sabbie del deserto, che provveda acqua e pane a
questo giovane pellegrino. Don Raffaele Bensi fu il suo Mosè, egli seppe leggere in quel neofita i segni dello
Spirito Santo. Lorenzo, incontrato Cristo, fu preso subito da lui. Con un linguaggio molto colorito, e direi
molto fiorentino, don Bensi ci offre questa testimonianza. “Incontrare Cristo, incaponirsi, derubarlo,
mangiarlo, fu tutt’uno sino a pigliarsi un’indigestione di Gesù Cristo; partì subito per l’assoluto senza vie di
mezzo, voleva salvarsi e salvare ad ogni costo, trasparente e duro come il diamante doveva ferirsi e ferire. E
così fu”.


Un colpo di testa? Una mattina d’estate del 1943, Lorenzo era andato a trovare don Bensi, che si affrettava
ad andare ad amministrare gli ultimi sacramenti ad un giovane prete morente. Lorenzo si offrì di
accompagnarlo: “Se permette, vengo con lei”. E fece con don Bensi quel tragitto, durante il quale gli
spalancò l’anima. Arrivati a destinazione, trovarono il prete già morto. Presso la salma del sacerdote, don
Bensi si inginocchiò a pregare. Lorenzo era turbato. Don Bensi ricorda che il giovane gli disse semplicemente;

“Io prenderò il posto di questo sacerdote”. Una frase che allora poteva apparire
incomprensibile, ma che indicava il desiderio di scelte impegnative che stavano maturando.
“Diventare prete fu per Lorenzo Milani solo una forma concreta a questa consegna di sé a Cristo. Questo
carattere di totalità contrassegna sempre l’esperienza di don Lorenzo e ne costituisce una chiave di
interpretazione, anche della sua intransigenza, a volte persino ruvida”, dirà l’attuale arcivescovo di Firenze,
Giuseppe Betori.


Il cardinal Carlo Maria Martini, a conclusione del convegno dedicato a don Milani presso l’Università
Cattolica nel 1983, così si esprimeva: “Don Milani visse all’insegna di un profondo radicalismo evangelico,
che non voleva blandire nessuno, né rendersi servo di alcuno”, e ne individuava la radice profonda nella sua
cultura di origine: “A me sembra di comprendere che la sua origine ebraica, innestata su una tradizione
plurisecolare, è vivissima, anche se non espressa in maniera formale nelle sue pagine. Siamo in presenza di
un uomo la cui radice ebraica è stata immessa in una cultura e in una prassi evangelica”.
Una vera lama di luce questa lettura di Martini che viene ad illuminare tutto un mondo su cui si è poco
riflettuto del mistero di una vita e di una vocazione. Nel ministero dell’uomo, del maestro e del sacerdote
Lorenzo Milani, vibrava lo spirito dei profeti di Israele: lui profeta e maestro, disturbatore delle coscienze,
uomo di fede, uomo di Dio, amico degli uomini, ma soprattutto servo di Dio e di nessun altro.
I Care!


“Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande I Care. E’ il motto intraducibile dei giovani americani
migliori. ‘Me ne importa, mi sta a cuore, me ne prendo cura’. E’ il contrario esatto del motto fascista ‘Me ne
frego’”. Parole indirizzate ai giudici del tribunale di Roma nel corso del processo a cui era chiamato a
rispondere per apologia di reato per aver difeso il diritto all’obiezione di coscienza contro leggi ingiuste.
Lorenzo Milani, un uomo dal cuore unificato: non somiglia al sacerdote e al levita della parabola, che
passano oltre il ferito, fuggendo dalla situazione per la tangente dell’obbedienza alla legge del rito e alle
leggi del tempio, ma ha fatto l’opposto: simile al Samaritano. “Un grande Samaritano
dell’intelligenza”,come acutamente osserverà qualcuno. Tutta l’esperienza di Milani, scuola compresa, va
riferita alla sua robusta fede biblica, in un Dio che agisce nella storia, e si riveste della carne umana, senza
cedimenti verso quello spiritualismo schizofrenico ed estenuante che ha inquinato tanta parte della
genuina tradizione dell’Evangelo eterno.
Così, commenta con lucidità padre Ernesto Balducci: “Egli finiva col deludere i laicisti per la sua fede sicura
e non dissimulata, e col deludere i buoni cattolici con la sua laicità totale e senza artifici”.


Nel cuore vivo della Chiesa
Don Lorenzo Milani ai margini della Chiesa? Canti migliori dovrebbero cantare quelli che si sono costruiti un
don Milani ai margini della Chiesa, canti migliori dovrebbero cantare quelli che hanno tentato di tesserarlo
nello schedario del proprio partito. Il prete Lorenzo Milani ha voluto essere servo di Dio e di nessun altro,
tanto meno servo di una certa chiesa corriva dopo la vittoria del 18 aprile del 1948! I cristiani avrebbero
dovuto avere un partito che “tenesse per statuto il Magnificat”.
Per cogliere il senso di una esistenza, quella del sacerdote Lorenzo Milani dovremmo prendere in prestito le
parole che la liturgia riserva ai sapienti: “Nel cuore vivo della Chiesa il Signore ha fatto risuonare la sua
voce e lo ha ricolmato dello Spirito di Sapienza, lo ha rivestito di un manto di gloria”.

Il mezzo privilegiato, il cardine del suo ministero sia a san Donato, ancor prima che a Barbiana è la scuola.
Essa “mi è sacra come un ottavo Sacramento. Da lei mi attendo (e forse ho già in mano) la chiave, non della
conversione, perché questa è segreto di Dio, ma certo dell’evangelizzazione di questo popolo”. E si noti: “
Sacramento” è scritto in maiuscolo, perché è un segno della presenza di Cristo, e indica il dono di Dio che è
la Parola, senza distinguere tra “parola sacra” e “parola profana”.


Il prete Lorenzo Milani farà della scuola la sua unica consumante pastorale, la legge del suo sacerdozio, il
suo messaggio più rivoluzionario. Un uomo in lotta per il povero, non certo perché il povero diventi ricco,
ma perché diventi un uomo libero, uno che conquisti da sé la sua libertà, perciò don Milani vuole restituire
ai poveri la parola. “La povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo. Si misura nella mancanza di
parola, sul grado di cultura e sulla funzione sociale”.
Il binomio Parola-parola rappresenterà la chiave di lettura che permette di non cadere nell’errore di
pensare a una scissione tra il maestro e il sacerdote in Lorenzo Milani, ma di comprenderli saldamente
uniti, così dom Benedetto Calati osava l’espressione sintetica del suo ministero: “La grammatica italiana
diventa in don Lorenzo una pedagogia della libertà e della fede”.


Solitudine e Comunione, libertà e appartenenza, parresia evangelica e fedeltà obbedenziale costituiscono la
grande triade dell’esistenza umana e cristiana dell’uomo e del sacerdote Lorenzo Milani.
“Promosso” priore in un angolo sperduto della arcidiocesi di Firenze, sul monte Giovi, a Barbiana, un
agglomerato di case, abitato da montanari e da pastori, in tutto 39 anime, un luogo senza acqua corrente,
senza luce elettrica, senza neppure la strada, in partibus infidelium, perché la stessa parrocchia era stata già
chiusa da anni, eppure il giovane sacerdote, trentunenne obbedisce. Come primo atto volle acquistare un
minuscolo pezzo di terra per farne la tomba nel minuscolo cimitero, che lo avrebbe fatto sentire totalmente
legato alla sua gente nella vita e nella morte, quasi un anello nuziale del giovane trentunenne che si lega
per l’eternità alla sua sposa.
Questo luogo sperduto e dimenticato, paradossalmente, diventerà la sua vita, la sua missione, la sua
cattedra, la camera nuziale dove trascorrere le lunghe notti d’amore, l’altare del suo sacrificio sacerdotale.
“La grandezza di una vita, scriverà alla mamma, non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta, ma
da tutt’altre cose. E neanche le possibilità di fare il bene si misura dal numero dei parrocchiani”.
Con questa coscienza netta, Lorenzo Milani entrava nel tempo dell’esilio, con lo stesso animo del suo più
illustre concittadino, Dante Alighieri: “L’essilio che m’è dato, onor mi tegno”. E, ancora: “Non potrò forse
indagare le dolcissime verità dovunque sotto il cielo?”. Molto illuminanti, per cercare di scrutare l’animo di
don Lorenzo le parole che prendiamo a prestito da Nicolò Tommaseo: “Dovunque una voce fratello mi
chiama, dovunque si piange è patria per me”.
Là, in quel luogo , la sua voce, nel disegno di chi ce lo aveva confinato, doveva spegnersi in una specie di
morte civile. E invece, come capita ai profeti, dalle viscere della terra , la voce di don Lorenzo risuonerà alta,
solenne, penetrando le coscienze di intere generazioni di credenti e non credenti, o per meglio dire di
uomini e donne pensosi.


Nella memoria millenaria dell’ebreo Lorenzo Milani, come aveva ben intuito il cardinal Martini, rivivevano i
tanti esilii dell’antico popolo d’Israele. Nella coscienza dei maestri d’Israele si arrivò e addirittura ad
affermare che la città santa di Gerusalemme fu distrutta dai Babilonesi prima, e dai Romani poi, perché
veniva trascurato l’insegnamento dei giovani. Il mondo, infatti, dicono i maestri, si regge sul lieve respiro
dei bambini che imparano a mormorare parole di Torah.

Narra una leggenda rabbinica. Tre maestri furono mandati in missione in un certo paese ad ispezionare lo
stato dell’educazione e dell’istruzione. Giunsero in un paese della Palestina dove non c’erano maestri.
Dissero agli anziani: “Conduceteci qui quelli che proteggono la città”, ed essi condussero la guarnigione
militare. I tre maestri esclamarono: “Non sono questi i protettori della città, ma i distruttori!”. “E quali sono
allora”, fu domandato, “quelli che proteggono la città?”. “I maestri!”, risposero.
Un grande miracolo avvenne là, nella terra di quell’amaro esilio. Il giovane prete, con quell’anima
supplementare ereditata dagli antichi padri, raccolse nella vecchia e malandata canonica, priva di luce
elettrica e di acqua corrente, i ragazzi semianalfabeti, già umiliati e offesi dal peso di bocciature e scarto
delle scuole pubbliche.


La canonica di don Lorenzo diventava un cantiere di idee, un laboratorio di una pedagogia rivoluzionaria. La
pedagogia della libertà. La scuola di Barbiana diventava una piccola città posta sul monte, metafora molto
cara a Giorgio La Pira, sulle cui mura vigilavano a difesa gli stessi ragazzi diventati maestri per vocazione,
quegli stessi ragazzi che, “insegnando, avevano imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne
tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è avarizia”. Era la grande lezione del maestro Lorenzo Milani: “Se
un povero possiede la Parola è come se possedesse la fionda usata dal pastorello Davide contro Golia”.


E il rapporto conflittuale con l’arcivescovo?
Quando don Milani spiegava ai suoi alunni il libro di Giobbe, diceva che la parte finale del libro, con la
restituzione a Giobbe di figli e ricchezza, era un’aggiunta non necessaria: l’importante era che Dio avesse
riconosciuto in Giobbe un figlio fedele e giusto. Questo, e solo questo il prete Lorenzo Milani chiedeva a suo
babbo vescovo: essere riconosciuto e amato come figlio fedele della Chiesa. Essere accolto sotto il suo
mantello, lui “che si era fatto cristiano e prete solo per spogliarsi di ogni privilegio”, come fu accolto
Francesco nudo sotto il mantello del vescovo Guido di Assisi. Il sigillo della sua pastorale sacerdotale, per
non aver corso invano.


A cinquant’anni dalla morte, un altro vescovo, il vescovo dei vescovi, papa Francesco, pellegrino sulla sua
tomba nel minuscolo cimitero di Barbiana, avrebbe steso il suo mantello su quel figlio della Chiesa, come
aveva fatto un giorno Elia con Eliseo.
Nel suo testamento per i ragazzi aveva scritto: “Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho la speranza che
lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto sul suo conto”.


Le parole della popolana rivolte al giovane pittore Bohèmien saranno il suo memoriale in quel sabato 24
giugno del 1967, sulla soglia della morte. Lorenzo, assistito dai suoi ragazzi, dopo un lungo silenzio,
mormorò: “Un grande miracolo sta avvenendo in questa stanza”. “Che miracolo?”. “Un cammello che passa
nella cruna di un ago”. Era l’ultima lezione.


Il signorino Lorenzo Milani sentiva d’aver finalmente conquistato quella salvezza per cui lottava da quando
attraverso la voce di quella popolana aveva iniziato il suo Esodo.
Il ricordo del Giusto sia in benedizione!