DANTE NEL RECENTE MAGISTERO DEI PONTEFICI (1921-2021)

Dante Alighieri

Il capitolo generale dei frati domenicani celebrato a Firenze nel 1335, appena quattordici anni dalla morte del poeta, proibiva in maniera solenne ai frati di tenere nelle biblioteche conventuali, e di leggere i libri poetici ovvero i libercoli scritti da quel tale chiamato Dante, composti nella lingua volgare.

E, inoltre frate Guido Vernani, inquisitore domenicano, bollava la Divina Commedia come frutto di una mente delirante, e “vas diaboli,”ancor vivente il poeta. La Commedia, con dolci allettamenti delle sirene poetiche, conduce ingannevolmente non solo gli animi fiacchi ma anche quelli forti, fino ad uccidere la verità portatrice di salvezza”.

I frati francescani non furono da meno! E, pensare che l’elogio più alto dei santi Domenico e Francesco era sgorgato dal cuore e dal canto di Dante.

E, nei tempi più vicino a noi, d’altro canto, una certa critica resa opaca da una miopia pregiudiziale ha spesso presentato Dante come un precursore e paladino del più sciatto anticlericalismo, quando condanna all’inferno papi, cardinali e chierici.

Ne è passata, da allora, di acqua sotto i ponti. In questi ultimi cento anni (1921-2021) abbiamo assistito ad una vera e propria rivoluzione che ha reso giustizia al poeta: si è alzata la voce del supremo magistero della Chiesa nell’insegnamento di tre grandi papi: Benedetto XV, Paolo VI e, più recentemente, papa Francesco. Ci hanno restituito il vero e autentico volto del poeta: Dante cristiano autentico, tempra di vero profeta, voce che risuona “in medio ecclesiae”, dimorando nel cuore della Chiesa, e non come di un fuoriuscito. La profonda coscienza esilica di Dante, l’amarezza de “lo pane altrui”, non può giammai riferirsi ad un esilio dalla Chiesa, nella quale solo poteva gustare la dolcezza “del pan degli angeli”.

Papa Benedetto XV, esattamente cento anni fa, nel sesto centenario della morte di Dante, primo pontefice nella storia, rendeva omaggio al sommo poeta dedicandogli un documento solenne, addirittura un’enciclica, In praeclara summorum, nella quale definiva la Divina Commedia, Quinto Vangelo, quasi a sottolinearne il valore ispirativo e definiva la fede “promotrice delle belle arti”, e così proseguiva: ““Se mai la virtù della fede ha brillato di una grande luce, questo è davvero il caso di Dante […]. Egli è il più eloquente tra quanti hanno cantato e proclamato la sapienza cristiana”.

Papa Paolo VI, questo gigante dell’umanesimo cristiano, ricorrendo nell’anno della conclusione del Concilio Ecumenico Vaticano II (1965), il settimo centenario della nascita di Dante, volle onorare il sommo poeta inviando due delegazioni di Padri conciliari, l’una a deporre una croce d’oro sulla tomba del poeta a Ravenna, l’altra delegazione per recare una corona d’alloro dorata con il monogramma di Cristo nel Battistero di Firenze, che Dante con struggente nostalgia dell’esule chiama “il mio bel san Giovanni”, dove il poeta era stato battezzato e diventato cristiano. L’intera Chiesa cattolica, nella sua massima istituzione, il Concilio, rendeva omaggio solenne nel tempio fiorentino al “Signore dell’altissimo canto”.

Il sette di dicembre, vigilia della chiusura del Concilio, il papa Paolo VI firmava la lettera apostolica, in forma di Motu proprio “Dominus altissimi cantus”, nella quale scriveva: “Dante è nostro e ciò affermiamo non già per farne ambizioso trofeo di gloria egoista, quanto piuttosto per ricordare a noi stessi il dovere di riconoscerlo come tale, e di esplorare nell’opera sua gli inestimabili tesori del pensiero e del sentimento cristiano”.

Il Concilio ormai volgeva al termine e con esso i Padri sinodali si preparavano a prendere congedo dall’assise ecumenica; quale dono, quale viatico, quale memoriale del Concilio potevano accompagnare i Padri, che facevano ritorno alle loro sedi episcopali nei quattro angoli della terra?

Qui la sapienza e la finissima sensibilità di Paolo VI raggiungono l’indicibile al limite dell’immaginabile. Il pontefice volle congedare i Padri conciliari con il dono di una edizione della Divina Commedia da lui stesso curata e accompagnata da una epigrafe scritta di suo pugno. Questo dono voleva essere il “memoriale del Concilio e breviario di poesia”.

Nell’intervista a Jean Guitton, Paolo VI dichiarava: “Dante mi è sempre stato presente in tutta la durata del Concilio”. Con quel dono e con quella epigrafe, Paolo VI voleva riassumere in una mirabile sintesi la grandezza e la perennità della dottrina cattolica che nel sommo poeta si scioglie nella pura poesia e nel canto di cui mai fu udito ascoltare simile armonia, perché nella coscienza di Dante, la sua opera, come lui stesso l’ha definisce era sentita:“Poema sacro/ al quale pose mano e cielo e terra”.

Il 25 marzo, solennità dell’Annunciazione a Maria, prende simbolicamente avvio il viaggio di Dante nella “selva oscura”. Papa Francesco ha scelto proprio questa data, dove tutto comincia, e il mistero della redenzione dell’umanità e il mistero della redenzione di Dante, per pubblicare, sulla scia dei suoi predecessori, la Lettera Apostolica Candor Lucis aeternae (Splendore della Luce eterna), per onorare la memoria del Sommo Poeta nel settimo centenario della morte.

Una scelta ben meditata da tempo. Già in pieno Giubileo straordinario della Misericordia (2015), ricorrendo i 750 anni dalla nascita di Dante, papa Francesco,in un messaggio al cardinal Ravasi, coglieva il nucleo centrale dell’opera di Dante: “La Divina Commedia può essere letta, infatti, come un grande itinerario, anzi come un vero pellegrinaggio, sia personale e interiore, sia comunitario, ecclesiale, sociale e storico. Essa rappresenta il paradigma di ogni autentico viaggio in cui l’umanità è chiamata a lasciare quella che Dante definisce ‘l’aiuola che ci fa tanto feroci’, per giungere a una nuova condizione, segnata dall’armonia, dalla pace, dalla felicità. E’ questo l’orizzonte di ogni autentico umanesimo”.

Papa Francesco ci propone Dante come “profeta di speranza, annunciatore della possibilità di riscatto, della liberazione, del cambiamento di ogni uomo e donna, di tutta l’umanità”. Carisma profetico, dunque. Egli si erge  a messaggero di una nuova esistenza, e profeta di una nuova umanità”, il ritorno della Chiesa alla purezza primigenia dell’evangelo, contro uno stato di corruzione generale e di compromessi col potere mondano. Dante ebbe piena coscienza che la sua opera era ispirata da Dio, un’opera scritta a quattro mani: le mani di Dio e le mani dell’uomo, un poema che si pone sul limitare del tempo e dell’eterno, sul discrimine fra l’umano e l’oltre umano: “Poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra”. La Divina Commedia è opera di profezia che si pone nel solco dei grandi profeti biblici, lo strumento che la Provvidenza offriva all’umanità e alla Chiesa del suo tempo per una autentica riforma spirituale e per la conversione.

E’ lo stesso Pietro che dà l’investitura della missione profetica a Dante nel Paradiso incitandolo, quando dopo una tremenda invettiva contro Bonifacio VIII, così si rivolge al Poeta: “E tu, figliol, che per lo mortal pondo / ancor giù tornerai, apri la bocca, / e non asconder quel ch’io non ascondo”(Par XXVII, 64-66).

Commenta papa Francesco: “Nella missione profetica di Dante si inseriscono, così, anche la denuncia e la critica nei confronti di quei credenti, sia Pontefici sia semplici fedeli, che tradiscono l’adesione a Cristo e trasformano la Chiesa in uno strumento per i propri interessi, dimenticando lo spirito delle Beatitudini e la carità verso i piccoli e i poveri e idolatrando il potere e la ricchezza (cfr Par. XXII, 82-84)”. Ma Dante, “mentre denuncia la corruzione di alcuni settori della Chiesa, si fa portavoce di un rinnovamento profondo e invoca la Provvidenza perché lo favorisca e lo renda possibile (cfr Par. XXVII, 61-63)”. Stiamo parlando di quel che papa Francesco ha sempre definito parresia, la schiettezza evangelica che parla chiaro e coraggiosamente.

La parabola di Dante diventa un “cammino di liberazione da ogni forma di miseria e di degrado umano (la “selva oscura”) e contemporaneamente addita la meta ultima: la felicità, intesa sia come pienezza di vita nella storia sia come beatitudine eterna in Dio”. “Si tratta, scrive Francesco, di un cammino non illusorio o utopico ma realistico e possibile, in cui tutti possono inserirsi, perché la misericordia di Dio offre sempre la possibilità di cambiare, di convertirsi, di ritrovarsi e ritrovare la via verso la felicità”. Questo testimonia, ad esempio, il re Manfredi, scomunicato,e quindi nella logica destinato alla dannazione, ma collocato da Dante nel Purgatorio, che così rievoca la propria fine e il verdetto divino. Trafitto da colpi di lancia, sulla soglia della morte, confessa: “Io mi rendei, / piangendo, a quei che volentier perdona. /Orribil furon li peccati miei; ma la bontà infinita ha sì gran braccia,/ che prende ciò che si rivolge a lei”( Purg.  III,119-123): una sintesi perfetta della visione che Francesco ha della misericordia di Dio.

Scrive papa Francesco: Non ci si salva da soli, sembra ripeterci il Poeta, consapevole della propria insufficienza; è necessario che il cammino si faccia in compagnia di chi può sostenerci e guidarci con saggezza e prudenza”.

La grazia ha preso il volto di tre donne, “tre donne benedette”. Sottolinea il papa: Appare significativa in questo contesto la presenza femminile”. Riecheggiano nelle parole del papa quanto affermava il cardinale Giacomo Biffi: “La visione teologica di Dante assegna un posto rilevante e privilegiato al principio femminile della salvezza. Senza l’intervento di Beatrice, di Lucia e soprattutto della Vergine Maria, la ‘Donna gentil in ciel che si compiange’, ogni pellegrinaggio al Dio beato e beatificante è concretamente senza speranza, senza il principio femminile di salvezza ogni anagogia ci è preclusa”.

Conclude il papa: Dante riconosce che solo chi è mosso dall’amore può davvero sostenerci nel cammino e portarci alla salvezza, al rinnovamento di vita e quindi alla felicità”. “Una santa catena di cuori e delle mani delle vive figure della Divina Commedia, che vegliano, guidano, aiutano”, scriveva Romano Guardini.

Ma non poteva mancare, a suggello della lettura dantesca del papa, nota Ravasi, il santo di cui porta il nome, Francesco d’Assisi, protagonista del canto XI del Paradiso, figura cara non solo a lui ma anche a Dante, tant’è vero che il pontefice stabilisce un suggestivo parallelo tra il santo e il Poeta. Molti tratti accomunano i due personaggi, ci limitiamo a portarne almeno uno, ma caro al magistero di papa Francesco: “L’apertura alla bellezza e al valore del mondo creaturale, specchio e vestigio del suo Creatore. Come non riconoscere in quel ‘laudato sia ‘l tuo nome e ‘l tuo valore /da ogne creatura’ della dantesca parafrasi del Padre Nostro (Purg XI, 4-5) un riferimento al Cantico delle creature di san Francesco?”.

“La figura di Dante, conclude papa Francesco, profeta di speranza e testimone del desiderio umano di felicità può aiutarci ad avanzare con serenità e coraggio nel pellegrinaggio della vita e della fede che tutti siamo chiamati a compiere, finché il nostro cuore non avrà trovato la vera pace e la vera gioia, finché non arriveremo alla meta ultima di tutta l’umanità ‘l’amor che move il sole e l’altre stelle’ ”.

Nazareno Pandozi