Voi siete certamente consapevoli che i grandi misteri della nostra fede – innanzitutto la resurrezione di Gesù, quindi la sua natività e anche la sua trasfigurazione gloriosa – sono celebrati da noi cristiani nella notte: la veglia pasquale, la santa notte di Natale, la gloriosa notte della trasfigurazione. Perché in quest’ora in cui gli uomini abitualmente si riposano o addirittura dormono, noi invece celebriamo i nostri santi misteri? Perché noi cristiani amiamo tanto le ore della notte per celebrare la nostra comunione con il Signore?
Certamente perché nella notte abbiamo più capacità di concentrazione, siamo meno distratti. Ma io credo che noi cristiani ci esercitiamo nella notte ad attendere – attendere la salvezza, attendere qualcuno che amiamo –, e dunque vegliamo nella notte, per restare vigilanti, per essere pronti ad accogliere il Veniente. Significativamente la chiesa ha sempre chiesto che i cristiani precedessero l’aurora; che i monaci, in particolare, nella notte fossero capaci di interrompere il sonno, per pregare, per mettersi davanti al Signore nella gratuità di un gesto che non solo non è chiesto, ma che magari può essere faticoso.
Ma c’è soprattutto un’altra ragione per il nostro vegliare nella notte: nella notte noi cantiamo il nostro desiderio della luce. Vivere la liturgia nella notte è fare una battaglia contro la tenebra. Noi affermiamo che crediamo al giorno, che crediamo al nuovo Sole che spunta dall’alto, alla Luce radiosa senza tramonto, alla Stella del mattino. Non a caso tutti i nomi dati a Cristo dai profeti e dalla chiesa nascente evocano la luce. Noi uomini in realtà siamo tutti cercatori di luce, siamo tutti dei ciechi che abbiamo bisogno della luce, siamo creature sempre avvolte nelle tenebre. E anzi, più camminiamo verso la luce, più ci rendiamo conto delle tenebre che ci avvolgono.
È anche significativo che in questi giorni in cui le notti sono le più lunghe dell’anno, all’interno della nostra cultura, che è pur sempre una cultura ispirata dal cristianesimo e dai suoi misteri, noi accendiamo molte luci, molte stelle luminose, vogliamo addirittura che le piante siano luminose, che le nostre città siano ornate da luci. Anche questo è molto bello e non dobbiamo ripudiarlo come se fosse semplicemente qualcosa che riguarda gli andamenti delle mode e dei consumi. Perché anche questo dice che noi abbiamo bisogno di luce, che la luce è per noi vita, che la luce ci è necessaria per poter camminare in una direzione. Che cosa è la luce, se non ciò che può toglierci dal nostro disorientamento? Perché la luce è sempre oriente, è sempre «Oriens ex alto» (Lc 1,78) che ci precede: la luce che cantiamo ogni mattino nel Benedictus, la luce che cantiamo in questo tempo di Natale, ma soprattutto in questa notte.
Per questo la Scrittura ci parla di una grande luce che è sorta per le regioni che erano state colpite dall’oppressione babilonese: è a quelle terre di Zabulon e di Neftali che il Signore promette che sorgerà una grande luce (cf. Is 8,23-9,1). Per questo il Vangelo ci parla di luce sulla grotta di Betlemme, quella luce che ha avvolto i pastori – ci dice Luca – nel momento stesso in cui accoglievano l’annuncio dell’angelo (cf. Lc 2,9). C’è stata una luce su quella grotta anche quando giunsero i magi da terre lontane (cf. Mt 2,2.9-10). Ma quella luce che hanno visto i pastori, quella luce che hanno visto i magi, a che cosa serviva, a che cosa faceva segno? In realtà portava i pastori e portava i magi soltanto a contemplare un evento umano: una donna che partorisce un figlio, una donna anonima che nessuno conosceva, giunta per caso a Betlemme, talmente non riconosciuta da non aver nemmeno trovato un posto per partorire nel caravanserraglio; un bambino che doveva ancora ricevere un nome, un infante. Tanta luce per vedere un bambino appena nato, per contemplare un fatto che avveniva da secoli e che avverrà finché c’è l’umanità: una madre che genera un figlio. Questo è ciò che hanno visto i pastori, ciò che hanno visto i magi, ciò che possiamo vedere noi, andando alla grotta di Betlemme.
È vero, c’è anche la rivelazione degli angeli che indica che quel bambino è il Figlio di Dio, il Salvatore, il Messia, il Signore (cf. Lc 2,10). Certamente gli angeli rivelano l’identità profonda di quel bambino, ma al vederlo non c’è nulla di straordinario, nulla che lo testimoni, nulla che possa raccontare la qualità di quel bambino. La qualità di Figlio di Dio va comunque contemplata in un semplice uomo senza gloria e senza splendore, in un bambino avvolto in fasce in una greppia. L’angelo li ha mandati a vedere questo: non hanno visto nulla di straordinario, e soprattutto non hanno vista nulla di religioso. Che cosa c’è di più umano di un bambino? Lo siamo stati tutti noi, e in qualche misura, sappiamo che nella vecchiaia ritorneremo un po’ bambini: per l’impotenza, per la fragilità avremo bisogno che altri ci accudiscano, come quando siamo nati. È l’uomo, siamo ciascuno di noi.
Quel bambino non poteva parlare, non poteva imporre nulla, non poteva imporsi. Questo è il mistero vero del Natale che sta davanti a noi. E il cristianesimo è proprio la religione che, a differenza di tutte le altre, ci dice che un uomo, nient’altro che un uomo, deve essere da noi colto come un figlio di Dio, come una parola di Dio fatta carne (cf. Gv 1,14). E un uomo è sempre qualcuno che attende la nostra presenza, il nostro sguardo come dono. Noi questa sera dovremmo sentire quella voce che ci ha accompagnato lungo tutto l’Avvento e che ci accompagnerà anche nel tempo di Natale: «Io sto alla porta e busso. Se uno ascolta la mia voce e mi apre, io starò con lui e lui con me» (cf. Ap 3,20). Chi lo dice? Chi è colui che dice di stare alla porta? È il bambino di Betlemme? È il Gesù che passava sulle strade di Galilea? È il Signore veniente nella gloria? Sì, ma perché noi riconosciamo il bambino di Betlemme, il Gesù che passa sulle strade di Galilea, il Veniente nella gloria in quanto vivo e risorto, dobbiamo ancora e sempre guardare semplicemente un volto, un uomo che sta davanti a noi. Il Natale ci chiede questo.
C’è un detto di Gesù che, anche se non è entrato nelle Scritture canoniche, esprime bene ciò che Gesù ci ha insegnato: «Hai guardato in faccia un uomo? Hai visto Dio». Il Natale ci ricorda questo mistero.
Enzo Bianchi