LA CROCIFISSIONE BIANCA DI MARC SHAGALL

“Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19, 37; cfr Zc 12, 10). “La crocifissione bianca” fu dipinta da Marc Chagall nel 1938, nell’immediata vigilia della seconda guerra mondiale. In essa il pittore volle esprimere le sofferenze del suo popolo odiato e perseguitato, quasi  presago delle ulteriori atrocità che sarebbero state commesse nei mesi e negli anni successivi. Un grande crocifisso bianco campeggia nel mezzo della tela, esaltato da un fascio di luce divina che sembra quasi sostenerlo. Il crocifisso non è cinto dal consueto perizoma, ma dal  talled, il manto ebraico usato per la preghiera rituale. Sul capo del Crocifisso si nota l’iscrizione in lingua aramaica: Jeshu ha-noszrì  malchà de-Jeudai. Attorno, anziché i consueti personaggi della tradizionale iconografia cristiana, in una generale confusione, sono raffigurati ebrei in fuga, scene di distruzione, di saccheggi e di disperazione. L’incendio della sinagoga (in alto a destra) ricorda le distruzioni dei luoghi di culto operate nell’Europa centro-orientale in quegli anni. Le punte giallo-rosse delle fiamme si confondono con il fascio della bianca luce divina, come se, in un’impossibile sfida, cercassero di insidiarla. Anche le fiamme che si sprigionano da un sefer Torah ( un rotolo di pergamena contenente il Pentateuco, cioè i primi cinque della sacra Scrittura) nell’angolo in basso a destra, di colore uguale a quello della luce divina, hanno ormai intaccato la scala appoggiata alla croce. I famigerati pogrom (le distruzioni degli  stetl,( i villaggi ebraici dell’Europa centro-orientale) sono rievocati sulla sinistra del quadro: case incendiate, distrutte, capovolte, sedie rovesciate, sepolcri profanati, un uomo morto per terra che sembra divorato dalle fiamme. In alto, a sinistra, i soldati sovietici in atteggiamento ostile e aggressivo conseguente alla complicità fra l’URSSS e la Germania nazista prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. La fuga dalla barbarie è un altro dei temi sviluppati: una donna fugge atterrita con il suo bambino tra le braccia, un vecchio attraversa le fiamme che si sprigionano dalla Toràh, mentre un altro ebreo cerca di portare in salvo un sefer (un rotolo della Scrittura). Sopra gli incendi lievitano tre figure sofferenti, due rabbini e una donna, disperati di fronte a tale tragedia. Essi sembrano intonare una preghiera funebre nel cielo annerito dal fumo di questa immane catastrofe, mentre Mosè, quasi uscendo dalla luce divina, cerca di consolarli. Gesù è al centro di tutta la rappresentazione, inchiodato su una croce bianca, già morto. Il suo corpo è pervaso di luce, il suo volto è sereno e composto. Egli sembra guardare a quella menoràh mutilata che sta ai piedi della croce. Delle sette luci ne rimangono sei: sembra quasi inconsapevolmente presagire quei sei milioni di ebrei annientati nei campi di sterminio. In questo scempio, solo la luce accende la speranza di una rinascita, di un riscatto, di una vita nuova rappresentabile, forse, da quella barca di fuggiaschi disperati che sembrano simboleggiare quanti sono riusciti a raggiungere Eretz Israel, la terra dei Padri. L’artista osserva attonito questa catastrofe, la  Shoàh, conseguenza di un antisemitismo che affonda le sue radici nell’humus di quell’ostilità nei confronti degli ebrei che ha caratterizzato il cristianesimo fin dai primi secoli della nostra era ed ha fatto della croce la giustificazione del proprio antigiudaismo. Sembra che, con i suoi pennelli, Chagall intoni sul suo popolo straziato una sorta di dolente qaddish, la preghiera ebraica per i defunti.  Ho l’impressione che nella coscienza cristiana stia maturando, sull’intuizione di Marc Chagall, un seme che potrebbe portare frutti straordinari, per ora noto soltanto qualche timida voce: nell’ebreo che veniva umiliato, offeso nella sua dignità, conculcato, sterminato ad Auschwitz, era lo stesso ebreo Jehoshua che veniva offeso e di nuovo crocifisso. L’intuizione artistica e poetica precede la riflessione dei teologi. Sia pure in ritardo, mi auguro che la teologia cristiana, senza appropriarsi del dramma della Shoah, cominci a riflettere su questa pista. Hanna Krall, scrittrice ebrea polacca, nata nel 1937, nel libro La festa non è la vostra, nel quale rievoca un orrendo eccidio di ebrei, che si erano rifiutati di calpestare i rotoli della Torah, narra un episodio che, a mio parere, può essere letto cristologicamente. “Kurt Engels, comandante della Gestapo, gli pose personalmente (ad un ebreo) in capo una corona di filo spinato e gli appese al collo un cartello: ‘Sono Cristo. Izbica è la nuova capitale degli ebrei ‘. Rideva a crepapelle mentre Leon Blatt camminava con la sua corona per le vie di Izbica”. In quel povero ebreo polacco si rinnovava  la passione dell’ ebreo Jehoshua, anzi agli occhi del carnefice era Cristo: “Sono Cristo”, era scritto a lettere cubitali sul cartello, che il comandante della Gestapo gli aveva incollato sul petto. Non ci richiama forse il cartiglio che Pilato aveva fatto apporre sulla croce di Gesù? Non ci richiama il cartiglio infame che l’ebreo chagalliano porta appeso come marchio d’infamia nel dipinto della Crocifissione bianca? L’intellettuale e grande romanziere ebreo russo Vasilij Grosmann, folgorato dalla visione della Madonna Sistina di Raffaello, entrato come corrispondente di guerra al seguito dell’Armata rossa nel campo di sterminio di Treblinka nel 1945, immagina la Madonna di quel quadro come una giovane donna ebrea e il suo bambino, che camminano scalzi sulla terra smossa, appena scesi dal carro bestiame, mentre si avviano verso le camere a gas. Ecco le sue parole. “L’ho riconosciuta dall’espressione del suo volto e nei suoi occhi, e ho riconosciuto suo figlio dalla sua espressione insolitamente matura e magnifica… Questo è come le anime delle madri e dei bambini, dovevano apparire mentre osservavano le mura delle camere a gas di Treblinka, che si stagliavano bianche dinanzi alla foresta di abeti verde-oscuro”. Grosmann sottolinea con forza come l’orrore della Shoà fosse stato originato dal rifiuto dei nazisti di considerare gli ebrei come esseri umani. E rileva come la Madonna fosse una donna ebrea e suo figlio un ebreo circonciso: se fossero vissuti nel secolo XX sarebbero stati spediti nelle camere a gas. Il rifiuto di Hitler di vedere Maria e Gesù come degli esseri umani rappresenta la chiave di lettura interpretativa utilizzata da Grosmann per affrontare la Shoah. In questa linea interpretativa di Auschwitz come metafora del “Golgota del secolo XX”, come ebbe ad esprimersi il papa Giovanni Paolo II, nel suo pellegrinaggio nel cuore del male assoluto, nel 1979, vorrei riportare la testimonianza del martirio di padre Gruber avvenuto il 7 aprile del 1945, giorno del Venerdì Santo, nel campo di Gusen.

“Devi crepare come il tuo Cristo, oggi, Venerdì santo, alle ore tre!”.

“Il venerdì 7 aprile, Venerdì Santo, alle ore tre i Francesi del Kommando  Endkontrolle, i Polacchi della fabbrica Steyr, osservarono un minuto di silenzio. Molti piangevano. A sera, delle SS annunciarono:

 “All’ora del Cristo, il curato si è suicidato”.

 “Si è impiccato con la cintura”.

“Impiccato il Venerdì santo!”.

La porta della cella era aperta. Il corpo – corpo senza volto, corpo disarticolato, dilaniato – pendeva dalla cintura di cuoio giallo.

“Guardate! Guardate bene!”.

Non vedevano che i muri schizzati di sangue… quelle ferite aperte, orribili. Tutti, comunisti, cattolici pensavano:

“Mentitori! Farabutti! Porci! L’hanno impiccato da morto!”.

 I deportati lo appresero in seguito, il giorno della Liberazione, interrogando le SS catturate:

“E’ stato il comandante Seidler in persona a torturalo per tre giorni. Poi il Venerdì Santo, gli ha annunciato: “Creperai come il tuo Cristo, alle tre!”.

 Il padre l’ha guardato, non aveva più la forza di parlare; tuttavia, si sforzò. Disse:

“Grazie, mio Dio!”, poi soggiunse: “ Comunque per voi la guerra è persa”.

 Alle tre Seidler lo strangolò. Poi tolse al Padre la cintura e ordinò ai guardiani di impiccarlo…”.

 

Papa Giovanni XXIII così avrebbe interpretato la Shoà, cioè cristologicamente. David Flusser, noto studioso del Nuovo Testamento all’università ebraica di Gerusalemme, ha raccolto questa testimonianza straordinaria, che vale la pena di far conoscere: “Si racconta che papa Giovanni, vedendo un film su Auschwitz, allo spettacolo degli ebrei uccisi, abbia esclamato: ‘Hoc est corpus Christi’. Sottolinea Flusser per dare credito a questo episodio: “Credo che si tratti di parole veramente pronunciate dal papa, e non un pio racconto. Perché sono parole pronunciate d’istinto. Esprimono una cristologia valida e molto profonda, direi eccezionalmente profonda. Ogni martirio, anche il recente, indicibile, tremendo martirio ebraico, è parte della morte in croce di Cristo. Questo aspetto del corpus mysticum di Cristo, non andrebbe dimenticato, costringe noi tutti, cristiani e non cristiani, a una feconda riflessione”. Allora il discorso potrebbe assumere un lato drammaticamente grave e oscuro: negare la Shoah per un cristiano, e massimamente per qualche prelato difensore del titillante ritualismo e del bello stile latino, (Williamson, vescovo della fraternità  lefreviana di S.Pio X), non è semplicemente un’aberrazione storica e brutale antisemitismo, ma è soprattutto negare la Croce di Cristo, è negare il Corpo di Cristo, è negare il mistero d’Israele, profezia del mistero di Cristo.  N.B. Queste noterelle (nugellae, direbbe il buon Petrarca, si parva licet), che non hanno nessuna pretesa di scientificità né tanto meno di criticità, sono nate in me quando ho appreso con molto piacere e stupore che la “Crocifissione bianca” di Marc Chagall, è l’icona più amata da papa Francesco. Lunga vita a papa Francesco, a cui auguro l’età di Mosè, 120 anni! (a cura di Nazareno Pandozi) Milano, 7 aprile 2013, Yom ha-Shoah