“Figlia di Babilonia/sterminatrice/beato chi ti rende l’infamia/che tu hai consumato contro di noi!/Beato chi afferra i tuoi bimbi/e li stritolerà contro la roccia”(Salmo 137, 8-9).
Questi versetti del salmo, che sgorgano dal cuore degli esuli che hanno fatto ritorno in patria da Babilonia, dopo il decreto di Ciro nel 538 A.C. in una Gerusalemme devastata, presso le rovine del tempio, diventato rifugio di volpi e di sciacalli, esprimono non solo l’immenso lamento, ma riportano alla memoria d’Israele altri lutti, altre sciagure nazionali, in particolare la prima Shoà ad opera degli Assiri, quando nel 722 A.C. spazzarono dalla storia il regno del nord, per non essere più ricostituito.
Gli Assiri, con capitale Ninive, l’immensa metropoli, richiamavano alla memoria di Israele non solo la devastazione, ma la deportazione in massa nel modo più feroce e più crudele. Il profeta Nahum chiama Ninive: “città sanguinaria, ‘ir addamim, città dei sangui”(3, 1). “Tutta frode, piena di stragi, che mai smette di predare”. Ninive era la grande prostituta, la città sanguinaria, il centro del terrore, il nemico per antonomasia del popolo ebraico, che aveva sperimentato la sua brutalità.
In questo clima di amare e sofferte memorie espresse dal salmo 129: “Sul mio dorso hanno arato gli aratori, hanno tracciato i loro lunghi solchi”, in questo momento di drammatica chiusura e di ripiegamento, sotto la guida dei riformatori Esdra e Nehemia, che innalzano muri di separazione dal mondo circostante, Il Signore, che guida la storia, ha donato il libro di Giona, questo breve racconto, esempio magistrale di arte narrativa e insieme pieno di contenuto teologico, che qualcuno ha definito. “la bomba atomica dell’Antico Testamento”.
“Fu rivolta a Giona figlio di Amittai questa parola del Signore: ‘Alzati, va’ a Ninive la grande città e in essa grida che la loro malizia è salita fino a me’”.
Nell’elezione di questa città, nota L. Alonso Schokel, sta la chiave di comprensione del messaggio del libro di Giona. L’Assiria non rappresentava semplicemente il mondo pagano in quanto tale, ma gli oppressori di tutti i tempi. Ad essi doveva dirigersi Giona per esortarli alla conversione e ad essi Dio vuole concedere il suo perdono. Mai la parola di Dio di Israele era stata rivolta ad un profeta perché andasse in una nazione pagana, ad una nazione di oppressori per annunciare la parola di conversione e di perdono. Parola dura, richiesta sconvolgente del Signore a Giona!
Richiesta sconvolgente per un profeta! Ninive ci richiama il mysterium iniquitatis, l’abominio. E’ con timore e tremore che osiamo andare con la memoria alla Berlino degli anni ’40 del secolo trascorso!
“Giona però si mise in cammino per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore” (1, 2).
Questa è certamente la prospettiva valida per comprendere l’opera del libro di Giona. Non si tratta qui di un universalismo religioso, come abbiamo visto nel libro di Rut, né di una coscienza missionaria, né di una semplice apertura ai pagani. Il messaggio del libro è molto più duro e difficile da accettare: l’amore di Dio si estende ben oltre i confini di Israele e nel suo amore accoglie anche gli oppressori, “fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni e manda la pioggia sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5, 45). Nel messaggio del libro di Giona ci sono due aspetti diversi. Il primo si riferisce agli oppressori, ed è quello della loro conversione. L’altro riguarda Israele ed è accettare che Dio perdoni loro. Il primo è ovvio, il secondo è inaudito. E’ questa la chiave di lettura che ci propone l’acuta esegesi di L. Alonso Schokel.
Ninive è certamente il simbolo dell’oppressione più crudele, dell’annientamento, ma tra i suoi abitanti ci sono più di centoventimila esseri umani che non sanno distinguere la destra dalla sinistra (i bambini). Sarebbe giusto che Dio annientasse questi bimbi afferrandoli e stritolandoli contro la roccia? E gli animali, che non hanno conosciuto il peccato, per i quali l’autore del racconto sembra sentire un affetto particolare? Il profeta contesta la logica di Dio: ”Signore, non era questo che dicevo quando ero nel mio paese? Per cui mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato” (Gn 4, 1-2). Giona è il profeta che si sente smentito e tradito da Dio, proprio da quel Dio che egli afferma di venerare, ma da cui è in fuga. Giona di fronte alla misericordia di Dio, invece di imparare ad essere misericordioso, vuole insegnare a Dio a non esserlo. Ed è proprio per questo che si ribella, si adira e vuole morire, perché Dio non è quello che lui vuole che sia.
Ed è in questa prospettiva che vogliamo proporre alla nostra meditazione, nel tempo liturgico di Quaresima, il libro di Giona, perché, come dice il midrash: il mondo si regge sul pentimento e sul perdono.
Inoltre Giona è l’unico personaggio nel quale la coscienza di Cristo si identifica deliberatamente, ciò non accade con nessun altro personaggio biblico. Ci riferiamo al “segno di Giona”. Giona è un indice puntato verso Cristo nel senso letterale del termine. “Allora alcuni scribi e farisei lo interrogarono: “Maestro, vorremmo che tu ci facessi vedere un segno”. Ed Egli rispose: “Una generazione perversa ed adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato se non il segno di Giona profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra”(Mt 12, 38-40).