Non hanno voluto ascoltare la voce delle suore che, ripetuta mente, li hanno supplicati di lasciar loro quella che dopo tanti anni di cure amorevoli, quotidiane, esemplari sentivano come figlia. Figlia, certo, perché si è figli di un amore, non di una sentenza, nemmeno se confer matadai bolli di cento tribunali e dai ragionamenti astratti di toghe che del diritto hanno fatto un teorema efferato. Sancendo la prima condanna a morte dell'Italia repubblicana. Che Eluana abbia bisogno di essere figlia di un legame vitale, in queste ore nelle quali il suo destino si è ri messo drammaticamente in movimento, appare con un'evidenza difficile da respingere.
Certo, un padre c'è: ma è quello che la sottrae a mani generose e care per consegnarla – pare – a un drappello di volontari della morte, comandati da un'ideologia disumana e da forze che nemmeno hanno il coraggio di dichiararsi. Chi avrebbe il cuore di sospenderle cibo e acqua, anche solo per rispettare una volontà mai davvero verificata? In questa cornice fattasi nuovamen te così cupa non si capisce tanta ostinazione nel voler portare a termine il disegno di soppressione di una vita misteriosa ma presente. In nome di questa vita, che la scienza ci mostra ogni giorno di più come terra ancora tutta incognita, anche noi vogliamo essere ostinati, se occorre contro ogni evidenza: ci ostiniamo a pensare che Eluana venga trasferita altrove ma per essere curata anche là, per continuare a vivere.
Ce lo dice l'istinto profondo di tutta la nostra civiltà, che non può ammettere un buco nero di questa enormità. Ce lo ripete la consapevolezza che molti tribunali – prima di quelli che hanno allestito sciagurati castelli di carte sballate e non fotografanti la reale condizione di Eluana per giu stificare l'orrore – avevano rigetta to la richiesta di staccare il sondino. Ce lo rammenta la voce del Papa, che ancora domenica ha negato che l'eutanasia (perché di questo si tratterebbe) sia una soluzione alla sofferenza, per quanto intollerabi le essa sia. Alla cartella clinica – colpevolmente ferma a conoscenze scientifiche vecchie di anni – hanno allegato le carte dei tribunali che hanno aperto la breccia nella nostra Costituzione (dove si tutela il diritto a vivere e a essere curati, e non certo il suo contrario) in un crescendo di autodimostrazioni buone per legittimare ciò che non si voleva chiamare per nome.
Si sono dati ragione tra di loro: dalla Cassazione alla Corte d'Appello di Milano, al Tar della Lombardia, con la pietra tombale a ogni voce contraria posata sabato dal presidente della Corte milanese Giuseppe Grechi, sprezzante nel liquidare le obiezioni e non a caso mostrato a esempio da papà Englaro: «Di più non potevo attendermi». Quella parte della magistratura che ha aperto la porta al consumarsi di un'ingiustizia verso una disabile grave incapace di esprimere oggi la sua volontà porta una responsabilità immane. Grechi e le altre toghe che con tanta arroganza hanno piegato i fondamenti del diritto per creare il mostro giuridico dell'onnipotente volontà individuale forse non hanno realizzato quale architrave si rischi di svellere con il loro consenso. Forse contano sull'assuefazione. Ma si sbagliano.
L'Italia non starà alla finestra, non ha questa indifferenza nella propria identità. Rifiuterà un'agonia insopportabile. Sa commuoversi, capire, battersi. Lo farà anche stavolta. E noi con lei. Perché Eluana è parte di noi. Sì, Eluana oggi è figlia nostra.