CINQUANT’ANNI FA L’ELEZIONE DI PAPA GIOVANNI XXIII

Cinquant'anni fa l'elezione di Papa Giovanni XXIII

«Da ieri sera mi sono fatto chiamare Joannes»

di Marco Roncalli

Cinquant'anni fa veniva eletto al papato Angelo Giuseppe Roncalli, che così scriveva la sera di quel giorno: "28 ottobre martedì (…) Conclave al iii giorno (…) S. Messa nella Cappella Matilde: con molta devozione da parte mia. Invocati con speciale tenerezza i miei Santi Protettori: S. Giuseppe, S. Marco, S. Lorenzo Giustiniani, S. Pio x, perché, m'infondano calma e coraggio (…) Non credetti bene discendere a desinare coi cardinali. Mangiai in camera. Seguì un breve riposo e un grande abbandono. All'xi scrutinio, eccomi nominato papa. O Gesù anch'io dirò con Pio XII quando riuscì eletto papa Miserere mei Deus secundum magnam misericordiam tuam. Si direbbe un sogno: ed è prima di morire, la realtà più solenne di tutta la mia povera vita. Eccomi pronto o Signore, ad convivendum et ad commoriendum (…) Dal Balcone di San Pietro circa 300 mila persone mi applaudivano. I riflettori mi impedivano di vedere altro che una massa amorfa in agitazione".
Si disse che – tra opzioni di continuità e discontinuità dopo il lungo pontificato pacelliano – il conclave era stato orientato dalla ricerca di un "Papa di transizione". Ma con Roncalli indicato già prima dell'ingresso nella Sistina: se costretto a notare "gran movimento di farfalle" intorno alla sua "povera persona" – come confidò al diario il 15 ottobre 1958; se capace di chiedere in segreteria di Stato a monsignor Angelo Dell'Acqua: "Appare anche il mio nome come futuro Papa. Che devo fare?" – e l'amico a rispondergli "non dica di no; lasci fare e affronti il sacrificio che Le si domanda"; se pronto a confessare il 24 ottobre al vescovo di Faenza Giuseppe Battaglia: "Sto passando attraverso qualche preoccupazione. Vi scrivo in fretta per invitarvi alla preghiera con me (…) Quando sentiste dire che ho dovuto cedere al volo dello Spirito Santo…".
"Guai a Lei se entra in conclave senza avermi fatto questo favore: la biografia di Sua Eminenza se chiamato ad majora", così, il giorno seguente, il conte Giuseppe Dalla Torre – direttore de "L'Osservatore Romano" – al segretario dell'anziano patriarca di Venezia Roncalli, don Loris Capovilla – che giorni fa ha compiuto 93 anni e ha appena rieditato le Lettere del pontificato.
Se chiamato ad majora, dunque! Come avvenne. Dopo che anche sul cardinale Gregorio Pietro Agagianian, proprefetto di Propaganda Fide, erano confluiti parecchi voti degli elettori: "Sapete che il vostro cardinale ed io eravamo come appaiati nel conclave dello scorso ottobre? I nostri nomi si avvicendavano or su or giù, come ceci nell'acqua bollente", confidò dopo l'elezione lo stesso Giovanni XXIII parlando agli alunni del Collegio armeno.
"Da ieri sera mi sono fatto chiamare Joannes", inizia in ogni modo così, con assoluta sobrietà, il diario di quel pontificato annunciato come "di transizione". Le sequenze successive, però, smentiscono subito certe posizioni attendiste sottese nell'ipotesi della provvisoria "transizione". Basti pensare a certi gesti reali e simbolici del nuovo Papa – le visite agli ospedali o al carcere di Regina Coeli – e ad altre sue decisioni immediate: la "normalizzazione" della curia – con le nuove nomine – o l'assunzione piena del ruolo di Vescovo di Roma – palesata con la presa di possesso della cattedrale del Laterano. E tuttavia è una, di lì a poco, la decisione papale – in incubazione già all'inizio di novembre – che spazza via del tutto l'ipotesi del "papato di transizione". O che consentirà di leggerla in modo nuovo. Quella del concilio ecumenico annunciato il 25 gennaio 1959. Ben presto la "transizione" assumerà, in pienezza, il senso di una svolta. E il pontefice bergamasco si rivelerà gradualmente un grande diplomatico – anche se non lo era subito sembrato – un grande comunicatore – pur digiuno di tecniche – ma soprattutto l'uomo dalla fede salda come la roccia, il pastore nei solchi della grande tradizione della Chiesa, ma proiettato con fiducia nel futuro. E capace di indicare i segni dei tempi; di reclamare l'urgenza di un aggiornamento nelle forme dell'annuncio evangelico; di dissentire dai profeti di sventura e cercare un dialogo aperto con il mondo contemporaneo. Tutto questo, appunto, nel segno della scelta conciliare.
Ripensare all'uomo che il 28 ottobre 1958 si caricò sulle spalle "con semplicità l'onore ed il peso del pontificato" – e, come annotò più tardi sul suo Giornale dell'anima, "con la gioia di poter dire di nulla aver fatto per provocarlo", significa però abbracciare con lo sguardo tutta una parabola umana e spirituale vissuta nell'impegno – direbbe Boris Pasternak – di essere "vivo, vivo e null'altro, sino alla fine", senza la quale non si può spiegare l'autentico significato dell'ultima tappa: quella che sovente ha condizionato approcci e prospettive. È un'operazione che si può fare considerata la mole smisurata delle fonti roncalliane edite – opere giovanili, diari, zibaldoni, quaderni, epistolari, omeliari, resoconti di discorsi, messaggi, colloqui, scritti privati e ufficiali – tutto materiale utile a capire mente e cuore di un giovane chierico o di un maturo ecclesiastico, il suo background, la sua conoscenza della storia e della critica storica, le sue scelte – e, di riflesso, anche il ruolo di collaboratori e interlocutori. Possibile, però, se si sa riconoscere che molto spesso ogni brano è timbrato dalle cifre della sintesi armonica e della semplificazione essenziale di chi si sente nel profondo pastor et pater, votato a quello che per tutta la vita, soprattutto sulla Cattedra di Pietro, è servizio sacerdotale. Possibile se si tiene conto della sua attenzione continua e responsabile ai bisogni della Chiesa e dell'"uomo in quanto tale", lungo un percorso esistenziale segnato dalla normalità anche nelle virtù, pubbliche e private. Solo così lo si sottrae al mito e lo si consegna alla storia, solo così lo si libera da tanti stereotipi logori che non ne hanno messo in luce la complessità.
Quartogenito di tredici figli, Angelo Giuseppe Roncalli, nato e battezzato il 25 novembre 1881 a Sotto il Monte (Bergamo), ad esempio non può essere considerato solo un frutto esclusivo della cultura contadina, dacché poco più che decenne la sua vera "famiglia" fu il seminario, a Bergamo e a Roma, l'istituzione che forgiò l'uomo di Chiesa, ma anche l'uomo, il chierico che attraversò la tempesta del modernismo, ma anche il giovane presbitero poi cresciuto alla scuola del grande vescovo Giacomo Maria Radini Tedeschi. Ecco perché una delle chiavi ermeneutiche per comprendere appieno la figura di Roncalli, la sua vocazione, la sua testimonianza, resta quella della spiritualità da lui assorbita durante l'adolescenza, e poi rigenerata nella quotidianità di ogni esperienza, primariamente come fiducia in Dio e nell'uomo sua immagine. Questo il vero filo che lega decisioni e scritti, senza delimitazioni di ambito, anche negli esercizi più alti del governo della Chiesa. È sempre nella luce della fede che Roncalli valuta i rapporti storici, persino quelli politici. Non a caso scrive in alcune note da Pontefice – citando Rosmini – che: "Il compito(…) del Papa per tutta la Chiesa e dei Vescovi per le diocesi di ciascuno, è predicare il Vangelo, condurre gli uomini alla salute eterna, con la cautela di adoperarsi perché nessun altro affare terreno impedisca, o intralci, o disturbi questo primo ministero". Ed è nella presenza attraente di Dio, nel tenersi "sempre con Dio e con le cose di Dio", che la sua vita si dipana. Da qui anche la consapevolezza di una fraternità universale e la sua preferenza nell'innalzare ponti piuttosto che barriere. È ciò che ha fatto, dopo aver trascorso i primi quarant'anni a servizio della sua diocesi, e nei successivi decenni "a servizio della Chiesa universale". Che ha realizzato quando Benedetto xv lo chiama a Roma a servizio della Congregazione di Propaganda Fide (tra il 1921 e il 1925) per animare in Italia il movimento di cooperazione missionaria), quando Pio xi dopo averlo promosso all'episcopato lo invia suo visitatore apostolico in Bulgaria – un decennio di solitudine nella terra delle rose e delle spine – e successivamente (dal 1935 al 1944) alla delegazione di Istanbul, amministratore apostolico dei latini di Costantinopoli, ma anche con il compito di delegato per la Grecia. Vent'anni di presenza nel Vicino Oriente gli consentono di sperimentare una sorta di ecumenismo ante litteram, di conoscere la varietà di riti e di tradizioni della Chiesa cattolica e delle Chiese ortodosse, ma anche il contesto islamico e il laicismo di Ataturk, di prodigarsi per gli ebrei in fuga e i greci affamati sotto l'occupazione dell'Asse, di dire – come fa a Istanbul nella Pentecoste del 1944: "Gesù è venuto per abbattere queste barriere; egli è morto per proclamare la fraternità universale; il punto centrale del suo insegnamento è la carità, cioè l'amore che lega tutti gli uomini a lui come primo dei fratelli, e che lega lui con noi al Padre".
Ma vanno ricordati pure gli anni alla nunziatura nella Parigi del dopoguerra – là promosso da Pio XII per risolvere il problema dei vescovi collaborazionisti – il suo atteggiamento davanti ai problemi della nuova Francia percorsa da tanti fermenti culturali, e poi il periodo veneziano come patriarca – memorabile il richiamo pastorale alla Sacra Scrittura e il rilancio della Bibbia nelle celebrazioni in onore di Lorenzo Giustiniani nel 1956.
Solo ricordando tutto questo si arriva a percepire l'uomo della fedeltà e del rinnovamento che ha nel cuore oboedientia et pax; che appena eletto chiede preghiere per lui affinché sia – a immagine di Gesù – un buon pastore. O l'uomo che con realismo prudente inizia l'epoca del disgelo e del dialogo, il Papa che nell'enciclica Ad Petri Cathedram del (1959) invita a considerare "non ciò che divide gli animi, ma ciò che li può unire nella mutua comprensione e nella reciproca stima", che nella Pacem in terris (1963) sottolinea la distinzione fra l'errore e l'errante, o che dopo l'elezione si costruisce un robusto programma di lavoro proprio richiamando "alcune forme antiche di affermazione dottrinale e di saggi ordinamenti di ecclesiastica disciplina, che nella storia della Chiesa, in epoca di rinnovamento, diedero frutti di straordinaria efficacia, per la chiarezza del pensiero, la compattezza dell'unità religiosa, la fiamma più viva del fervore cristiano". Con questa visione negli occhi, il 25 gennaio 1959 annunciò il concilio ecumenico Vaticano ii, il sinodo per la diocesi di Roma, l'aggiornamento del codice di diritto canonico.
Ricordava nei giorni scorsi il vescovo Bruno Forte proprio a Sotto il Monte – dove sto scrivendo – che, nei fatti, il pontificato giovanneo attraverso il concilio ha coniugato la storia e l'eterno, valorizzando il rinnovamento teologico del xx secolo e il ritorno alle fonti bibliche, patristiche e liturgiche, che lo aveva nutrito. Un senso vivo della storia mai separato in lui però da uno sguardo aperto sul mistero, attento a misurare sull'eterno la caducità e la contingenza del tempo. Un motto trasmessogli in seminario lo accompagnò tutta la vita: "Dio è tutto, io sono nulla". E parlando con Jean Guitton da Pontefice diceva: "Gli astronomi, per guidare gli uomini, si servono di strumenti molto complicati(…) Io mi accontento, come Abramo, di avanzare nella notte, un passo dopo l'altro, alla luce delle stelle". Una metafora per richiamare il "padre dei credenti", guidato dalla "Parola del Dio vivente". Insomma la Parola divina alla radice della storia umana. Quella cui è stato dedicato il Sinodo dei vescovi appena concluso. Sempre nel paese natale di Giovanni XXIII, la settimana scorsa è arrivato anche Frère Aloys, il priore di Taizé, provenendo da Roma, dal Sinodo dei vescovi. Ha confidato: "Ascoltando in questi ultimi giorni i vescovi del mondo intero, mi dicevo: "Se i vescovi arrivano a vivere, attraverso questo Sinodo, una così bella espressione della collegialità, lo devono ancora a Giovanni XXIII". Anche lì egli ha aperto un cammino che la Chiesa non ha finito d'esplorare".

(©L'Osservatore Romano – 27-28 ottobre 2008)